CENNI SUI CRATERI PEUCETI RINVENUTI A POLIGNANO - Guida Turistica di Polignano a Mare: Cosa Vedere e Vacanze Indimenticabili

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CENNI SUI CRATERI PEUCETI RINVENUTI A POLIGNANO OR SONO ESATTAMENTE 231 ANNI

In seguito alla campagna di sensibilizzazione, avviata in occasione dei recenti e costosi lavori di ripavimentazione delle piazze A. Moro e G. Garibaldi, l’argomento dei “Crateri peuceti” è ormai noto quasi a tutti in Polignano.
          Mi sembra opportuno riparlarne in questo sito WEB, ormai seguito con interesse e attenzione da migliaia di internauti, che non sono di Polignano.
          Il primo a farne divulgazione con dovizia di particolari fu, nel 1928, il periodico «U Castarill», peraltro rimasto numero unico, diretto da Giuseppe Modugno, benemerito giornalista polignanese. Nel citato giornale apparvero due articoli: uno, dal titolo «Cenni illustrativi di antiche tombe rinvenute nella Mensa Vescovile», a firma di Ignazio Galizia, il più valente storiografo polignanese, purtroppo morto all’età di trent’anni, e l’altro, dal titolo «Le monete dell’antica Neapolis in Peucetia», a firma dello stesso direttore.
          I due articoli sono ancora oggi leggibili presso la sede dell’Associazione culturale «U Castarill», sita in piazzetta Miani, nei pressi dell’Arco marchesale e nelle biblioteche locali, che custodiscono copia della rivista cui non è difficile accedere.
              Dei crateri peuceti, altri studiosi avevano fatto cenno in precedenza.
          Nel 1798, Alfano Giuseppe Maria ne scrisse in «Istorica descrizione del regno di Napoli diviso in dodici provincie, in cui si fa menzione delle cose più rimarchevoli di tutte le città, terre e torri marittime in esse contenute con le badie del regno etc.». (v. foto)[1]. All’incirca nello stesso periodo ne accennarono anche il giurista di origini polignanesi Giulio Recupero e l'erudito barese Emanuele Mola e altri[2].
          Circa una ventina di anni or sono, il polignanese professor Lorenzo Messa trattò l’argomento, con grande competenza scientifica e con altrettanto scrupolo investigativo, nella sua pregevole tesi di laurea, in Archeologia della Magna Grecia, dal titolo «Neapolis peucetiae». Da detto ponderoso studio, lo stesso professor Messa ricavò un eccellente e dettagliato articolo, pubblicato nella rivista «Fogli di Periferia».
          Intorno agli anni 60/70 del ‘900 ne scrissero, non senza grande acume e amore disinteressato verso il passato di Polignano, il professor don Nicola Giordano e il compianto Filippo Franco Favale.
          Più recentemente, lo scrivente, oltre ad avere riesumato l’argomento, caduto nel dimenticatoio a causa di ignavia paesana, riavviò, pur tra mille polemiche e incomprensioni, il dibattito nel paese, dando la stura a ulteriori studi, sfociati infine nella riproposizione di uno dei quattro vasi più pregiati, offerto in mostra a Polignano dal Museo Nazionale di Napoli ove era custodito.
          L’altro vaso, il più prezioso, ossia il cratere a volute custodito presso il Metropolitan Museum di New York, arriverà - ne sono convinto - prima o poi, a Polignano, perché ormai l’interesse per le cose di casa nostra è cresciuto e la sensibilità è ormai diffusa dappertutto, non solo tra gli addetti ai lavori.
         Ma andiamo con ordine, pur esponendo i fatti in estrema sintesi a beneficio del lettore comune che ama conoscere la storia locale ma non ama preamboli complessi o troppo articolati.
          Nel 1785 l’ultimo vescovo di Polignano (1775-1797), il dottissimo Mattia Santoro, nativo di Bovino nel 1736, consapevole del fatto che a Polignano vi era stato un grande sepolcreto antico perché di tanto in tanto e di qua e di là vi erano affiorati reperti antichi, avviò una campagna di scavi nel cosiddetto “Orto di Monsignore”, un pometo di proprietà della mensa vescovile “a un tiro di pietra dalla muraglia”,nell'area della necropoli, appena fuori della cerchia delle mura. I lavori disposti dal nostro vescovo – a cui la sbadataggine paesana non ha ancora intitolato un luogo pubblico – portarono al rinvenimento di numerose tombe, fra le quali primeggiava la più vasta, una tomba a semicamera, d’una lunghezza che si vuole di 12 metri, parzialmente affrescata, contenente resti di un’armatura, antica di ca. 2300 anni, e 64 vasi funerari di varie dimensioni, fra i quali quattro pregevolissimi, di cui si dirà più avanti. Al rinvenimento della grande camera sepolcrale, il vescovo Santoro volle subito relazionare “alli superiori” a Napoli, e donò con gioia[3] “i migliori di detti vasi ed i meglio conservati” [4] al re Ferdinando IV di Borbone.
          Giova riportare testualmente quanto scrisse il prof. Lorenzo Messa in “Fogli di Periferia” a riguardo dei vasi descritti da monsignor Santoro: “«Sul finire del 1956 il Metropolitan Museum of Art di N.Y acquistava 65 vasi greci appartenuti al magnate dell’editoria americana William Randolph Hearst, morto nel 1951… in particolare si lascia ammirare un cratere a volute con mascheroni di oltre un metro di altezza, decorato sul lato principale, nel collo, da una quadriga di splendidi destrieri bianchi guidata da Nike e preceduta da Ecate, nel corpo da una scena di amazzonomachia alla presenza di alcune divinità, il quale si dice “ritrovato vicino Taranto nel 1786[5].
          “ Tanta attenzione riservata alla data della scoperta ed al luogo del ritrovamento non era consueta fra gli antiquari del Settecento, ma nel caso di questo cratere, quei dati rivestivano un’importanza fondamentale ai fini del mercato perché siamo di fronte al gioiello dell’antica collezione di vasi “etruschi”, ossia greci, del re di Napoli Ferdinando IV di Borbone… …Il pezzo certamente più pregevole viene denominato da mons. Santoro “Urna cineraria” per via del pregiudizio, invalso a quel tempo ma non condiviso dallo scopritore, di credere i vasi antichi di grandi dimensioni destinati ad accogliere le ceneri del defunto. In effetti l’urna misurava quattro palmi napoletani in altezza ma non avrebbe potuto contenere né ceneri né monete d’oro dal momento che, come gli altri tre vasi grandi ritrovati insieme ad essa, era priva di fondo, quindi aveva un utilizzo puramente rituale. “…Due vasi, alti 3 palmi e 1/3 (circa 85,5 cm.) avevano forma e pitture molto simili e, dal fatto che presentavano entrambi alto piede, collo molto stretto e labbro assai espanso, cui terminavano i due manici partendo dal punto di massima espansione del corpo, è probabile che ricalcassero la sagoma delle anfore panatenaiche apule. Anche essi presentavano dei “larari” sul lato principale e dei cippi funerari sul lato opposto con a fianco figure di offerenti. L’ultimo vaso grande, alto 3 palmi napoletani (circa 80 cm.) era di figura cilindrica, quindi, assai verosimilmente, una Loutrophoros apula. “… Oltre a questi quattro “Vasi grandi”, indubbiamente i più belli e preziosi, il vescovo ne descrive molti altri che, sulla base della forma e delle decorazioni, si possono far rientrare nelle tipologie ceramiche più diffuse tra i corredi della Peucezia della seconda metà del IV secolo a.C. “… Compaiono inoltre nell’elenco, terrecotte figurate, tra cui una Sfinge ed una Venere, la quale esce dalla conchiglia, bacili di bronzo, un elmo ed altri frammenti dello stesso materiale che forse formavano l’armatura del Morto, il finimento esteriore di un Candelabro, due calici di bella forma , uno dipinto con teste e l’altro senza pittura ma con chiodo al manico pel quale era attaccato al muro ove si è ritrovato”.
          L’articolo prosegue riportando altre descrizioni degli oggetti rinvenuti, estratte dalla lettera di mons. Santoro. Per completezza di informazione e per evitare confusione aggiungo solo che il primo grande vaso, quello definito “il più prezioso ornamento del real museo di Capodimonte”, oggi è custodito al Metropolitan Museum di New York; dei due vasi di ca. 85,5 cm., uno è conservato a Parigi presso il Louvre, frutto peraltro della rapina dei regnanti napoleonidi ai tesori del regno di Napoli, e l’altro al museo nazionale di Francoforte. La “loutrophoros”, attualmente in mostra a Polignano, si trova abitualmente presso il Museo Nazionale di Napoli.
          A Polignano, purtroppo, non è rimasto nulla né si conservano neppure i piccoli reperti di minore valore rinvenuti nel 1785. Si dice, ma è voce che va verificata, che alcune case di privati cittadini siano arricchite di numerosi altri reperti, rinvenuti durante i lavori di fondazione.
          È la conferma che sotto le piazze Moro, Garibaldi, Verdi e strade limitrofe vi era quel gran sepolcreto, che purtroppo non è stato difeso dalla speculazione privata nel corso dei 230 anni dai primi scavi ordinati da mons. Santoro.
          E neppure i recenti lavori di profonda risistemazione delle aree coinvolte hanno imposto quel minimo di cautela o di provvida lungimiranza, finalizzata a mettere in evidenza il Grand Mausolèe, come è stato fortemente e reiteratamente richiesto da alcuni cittadini più sensibili. Si è perso un’occasione che non capiterà più. Purtroppo. Polignano avrebbe potuto avere l’occasione di eccellere, con legittimo vanto, non solo per le incantevoli bellezze paesaggistiche ma anche per la sua storia che, in passato, ha avuto momenti di un certo splendore come i pregiatissimi reperti, conservati nei più prestigiosi musei, stanno a testimoniare all’universo mondo.

[1] Da quanto scrive l’Alfano si ricavano notizie utilissime per far luce sulla vicenda. P.e. 1) “gli scavi vennero fatti in centinaia di sepolcri, non solo nell'Orto di monsignore ma anche in orti vicini” 2) “gli scavi vennero fatti in un'area "ad un tiro di pietra" dalla città” 3) “i vasi “etruschi” di Polignano erano celebri per la loro rarità ed antichità” 4) “uno dei quali fu stimato del valore di diecimila ducati” 5) “Il sovrano stesso dichiarò con suo regalo dispaccio che detto vaso formava il più prezioso ornamento del Real Museo” 6) “La dottissima ed eruditissima penna del succennato di Lei vescovo don Mattia Santoro”. Su altri importantissimi riferimenti dell'Alfano si tornerà in altre occasioni.
[2] Non si può dimenticare, tra questi, sir William Hamilton, potente ambasciatore di S.M. Britannica presso il Regno di Napoli. Intorno al grande cratere apulo il detto ambasciatore non è esente da responsabilità non di piccola misura, ma qui voglio solo ricordare che, appassionato collezionista di reperti antichi, volle venire personalmente a Polignano (forse per prendersi in loco qualcosa che da Napoli non gli riusciva di acciuffare…) e visitando la grande tomba a semicamera, ebbe a definirla “Le grand Mausolèe”, espressione che è diventata familiare a tutti a Polignano tranne a chi avrebbe avuto il dovere di cogliere l’occasione dei lavori di rifacimento delle piazze per cercare di metterla in evidenza!
[3]  Forse anche per sgombrare il campo dall’accusa di essere additato dalle male lingue paesane alla stregua di vilissimo tombarolo o di avido mercante di reperti antichi.
[4] L’espressione è dal prof. Lorenzo Messa fedelmente ripresa dalla lettera di mons. Santoro a Carlo De Marco, ministro dell’Ecclesiastico presso la corte del regno di Napoli.
[5] Oggi il MoMA (Metropolitan of Art Museum) di New York ha finalmente riconosciuto che quel vaso venne ritrovato a Polignano e ha apportato la doverosa correzione nella scheda illustrativa, grazie all’impegno di un altro polignanese innamorato della storia dei vasi del mons. Santoro, il sig. Giuseppe Maiellaro.





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