C’ERA UNA VOLTA… LA STORIA DEI SETTE PORCELLINI D’ORO IN UNA GROTTA DI POLIGNANO - Guida Turistica di Polignano a Mare: Cosa Vedere e Vacanze Indimenticabili

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Le leggende che raccontano, o hanno raccontato nel corso del tempo, a Polignano non sono poche. Leggende che non sono storia, prive come sono di “historica autoritate”. C’è una storia, però, che nacque da un sogno e il delirio si fece realtà. Narro quel che ricordo di quella storia delirante. Una narrazione, figlia di ricordi sfumati dal tempo, giacché all’epoca ero un bambino di pochi anni. Rammento che al sole di una incipiente primavera e durante i ripetuti giorni di bonacce profumate di salso molti polignanesi, affacciati all’inferriata del grandioso ponte borbonico a cinque luci di corda che sovrasta il burrone sotto l’abitato del paese, si intrattenevano in crocchi e discorrevano di un tesoro, che di lì a poco sarebbe stato disseppellito e, quale bene collettivo, distribuito tra tutti. Un tesoro, nascosto in una grotta, confinante con i resti della vecchia fortificazione a protezione del fondaco dirimpettaio e dei traffici mercantili, che un tempo erano fiorenti nel piccolo ma sicuro fiordo di Polignano, utilizzato da secoli, e soprattutto durante i ca. 70 anni di dominazione veneziana, per lo scambio delle merci fra le due sponde dell’Adriatico dai numerosi commercianti ragusei. Ancora oggi l’antichissimo vico “porto raguseo” ricorda la presenza di quella folta comunità dalmata nel nostro paese. Quei crocchi sul ponte discorrevano di un tesoro, indicato come “la scrofa con i sette porcellini d’oro” (bisognerebbe far ulteriori ricerche per interpretare il significato di tale dizione) e sognato nei primi anni Cinquanta del ‘900, da un signore, del quale ricordo vagamente il cognome, che non cito per tema di sbagliare. I contenuti del sogno, vaneggianti di un tesoro nascosto in tempi antichi in una grotta della Lama Monachile probabilmente da ricchi feudatari locali per tema di rapine da parte di malviventi locali e più ancora di incursioni dal mare di barbari saraceni (si ricorderà che le scorrerie piratesche a Polignano come a Fasano e in tanti altri paesi del litorale hanno un fondamento storico) furono divulgati ai quattro venti e, di voce in voce, la nuova giunse alle orecchie degli amministratori comunali, i quali, chissà perché, vollero dar credito alle visioni oniriche. Si organizzarono squadre di operai e furono disposti lavori di scavo nella grotta sotto le case antiche del costone sudest della Lama. Abbagliati dal miraggio della ricchezza a portata di mano, gli operai scavarono per diversi giorni sempre più in profondità sotto le casupole, che già si reggono per un mirabile equilibrio della natura e per la protezione benevola non solo del santo patrono ma di tutti i santi del paradiso... Non si perdette del tutto, per nostra grazia, la lucidità e la prudenza, perché si provvide a puntellare la grotta, oggi non più bagnata dal mare, e il suo ingresso con un pilastro massiccio di tufi, ancora oggi visibile ancorchè seminascosto da una grande siepe. Ma chi sa non si lascia ingannare dalla flora lussureggiante e ogni volta che scende al mare nel basso porto si rammenta di quelle settimane di delirio collettivo. Ritrovata infine la ragione e la compostezza a causa dell’esito infausto della campagna di scavi, si interruppero i lavori, ma l’accaduto generò una stagione di frizzi e lazzi. Peppino Bonsante (un polignanese che, ancora oggi e a distanza di tanti anni, ricordo con molto affetto per lo splendido rapporto che lo legava a mio padre), era un sarto di mano sopraffina, che per diversi decenni apriva bottega all’inizio di via Atropo, a un tiro di schioppo dal famoso caffè Masi, il più antico e rinomato di Polignano. Peppino univa all’arte dell’alta confezione la capacità di comporre versi e musiche. Infatti, sulla ridicola storia del fantomatico tesoro scrisse una canzone, intitolata “I sette porcellini”, che accompagnava un carro carnevalesco, sul quale danzavano le piccole maschere dei sette porcellini. Ricordo vagamente la filastrocca e il motivetto e, se farò pure io uno scavo profondo nelle carte di famiglia, probabilmente troverò qualche traccia dell’accaduto in quei giorni dei primi mesi, s.e., del ‘53 o ‘54. Ma al momento soprassiedo avendo altri pressanti impegni. Chi voglia leggere quei versi o sentire quella canzoncina può rivolgersi ai figli di “Peppino ù sart”. Non ho fatto indagini sui giornali dell’epoca per rinvenire la cronaca dell’episodio e magari qualche foto del carro allegorico, ma volendolo, chi lo volesse, lo può sempre fare presso la Biblioteca Nazionale di Bari o presso l’emeroteca Sagarriga Visconti. E così, quegli amici che domenica scorsa non credevano al racconto dell’episodio mentre dall’alto del ponte indicavo loro la grotta in basso, oggi hanno una traccia scritta cui prestare attenzione per sapere quel che la memoria collettiva vorrebbe dimenticare e magari tenere sepolta laddove ca. sessant’anni fa si pensava ci fosse il forziere pieno di monete d’oro raffigurante i porcellini d’oro.

Un ringraziamento grande al sig. Vito Bonsante, figlio dell'autore, per avermi fornito il testo della parodia.


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